Secondo la Cassazione n. 5479 del 22 febbraio 2023 il negozio con firma apocrifa è valido ed efficace nei confronti del soggetto la cui firma è stata artefatta qualora quest’ultimo ne sia (o venga) a conoscenza e non disconosca la firma apocrifa, ovvero si avvalga degli effetti del contratto, applicandosi in via analogica la disciplina della ratifica di cui all’art. 1399 c.c.
L’art. 1399 c.c. disciplina la ratifica del contratto concluso dal rappresentane privo di potere rappresentativo, ovvero che abbia ecceduto i limiti delle facoltà conferitegli, stabilendo che il negozio così perfezionatosi può essere ratificato dall’interessato che, così facendo, ne assume su di sé gli effetti. Tale fattispecie presuppone tuttavia che il contratto sia stato effettivamente sottoscritto dal rappresentante (che vi appone la propria sottoscrizione autografa), ancorché privo di poteri, il che rende necessario l’intervento del rappresentato (persona fisica o giuridica) che, per il tramite della ratifica, si attribuisce gli effetti del negozio concluso dal cosiddetto falsus procurator, altrimenti privo di efficacia nei propri riguardi.
Il caso affrontato dalla pronuncia in commento, invece, è diverso, non essendo immediatamente riconducibile alla fattispecie di cui all’art. 1399 c.c., né essedo disciplinato da altra norma specifica. Non si tratta, infatti, di un contratto sottoscritto da un soggetto privo del potere di rappresentanza, bensì di un negozio che reca la firma del rappresentato (nella specie il legale rappresentante di una società) la quale, tuttavia, si scopre essere falsa. In tal caso il contratto parrebbe destinato a rimanere inefficacie tout court; ciò in quanto non risulta né che il negozio sia stato sottoscritto dal soggetto la cui firma viene artefatta, né che l’autore della falsificazione (peraltro sconosciuto) abbia inteso assumerne gli effetti. Nondimeno, ricorrendone i presupposti, la Corte di Cassazione ritiene il contratto recante una sottoscrizione apocrifa valido ed efficace nei confronti del soggetto al quale è (falsamente) attribuito; seguiamo quindi il ragionamento della Corte.
Anzitutto, evidenziano i Giudici di legittimità, nella fattispecie che ci occupa, non accade che una persona, correttamente identificata, agisca in nome e per conto di un’altra, assumendo di avere i poteri dei quali era invece sprovvisto, bensì che il contratto venga sottoscritto da parte di un soggetto, rimasto sconosciuto, che vi abbia apposto la firma di un altro, cui il contratto dovrebbe riferirsi; con il che il negozio rimane improduttivo di effetti nella sfera giuridica dell’apparente firmatario, a meno che questi non lo faccia proprio.
Nondimeno, osserva la Corte, nella fattispecie che ci riguarda possono riconoscersi due ipotesi, dovendosi invero distinguere il caso in cui l’autore della dichiarazione abbia voluto per sé il risultato del negozio, ovvero abbia voluto attribuirlo al titolare del nome usato, occorrendo a tal fine procedere, volta per volta, ad un’operazione ermeneutica del comune volere dei contraenti.
Ebbene, nel caso in esame, era emerso che l’usurpatore, o l’usurpatrice, del nome altrui (nella specie il legale rappresentate di una società) non avesse inteso riferire il contratto né a sé stesso, né alla persona fisica della quale aveva usato falsamente il nome ma, piuttosto, alla società della quale quest’ultima era legale rappresentante.
La fattispecie in esame finisce quindi per essere assimilabile ad una spendita indebita del nome (del legale rappresentante) della società. Infatti, la falsificazione della firma del legale rappresentante dà luogo – sul piano dell’apparenza – alla riferibilità del negozio alla società, esattamente come accade quando il contratto viene sottoscritto da parte di chi dichiari di rappresentare un soggetto che non è abilitato a rappresentare, ciò consentendo l’applicazione – in via analogica – della disciplina della rappresentanza, ivi compreso l’art. 1399 c.c.
In una fattispecie siffatta è quindi possibile la ratifica del contratto da parte del soggetto falsamente rappresentato (nella specie una società), la qual cosa va accertata in concreto, avendo rilievo tutti gli atti e/o i comportamenti, anche taciti, dai quali emerga la volontà di quest’ultimo avvalersi degli effetti del negozio, facendolo proprio.
Nel caso in esame era altresì emerso che la società falsamente rappresentata, portata a conoscenza della conclusione del contratto (nella specie una garanzia fideiussoria), non solo non l’avesse disconosciuto, denunciando la falsità della sottoscrizione del proprio legale rappresentante, ma se ne fosse avvalsa, facendo propri ed acquisendo in tal modo su di sé gli effetti dell’attività svolta dal falso sottoscrittore. Ne consegue, secondo la Corte di Cassazione, che il contratto in questione può dirsi valido ed efficace anche nei confronti del soggetto falsamente rappresentato, ancorché ne fosse accertata la firma apocrifa.
Concludono, i giudici di legittimità, affermando il seguente principio di diritto: il contratto (nella specie, di garanzia) cui sia stata apposta la firma apocrifa del legale rappresentante della società apparentemente firmataria è privo di effetti nei confronti della società stessa, ma può essere recepito nella sua sfera giuridica, in applicazione analogica del disposto dell’art. 1399 c.c., qualora questa, a mezzo di atti o comportamenti concludenti, provenienti dal legale rappresentante avente allo scopo adeguati poteri rappresentativi, manifesti univocamente la volontà di avvalersene (così Cass. Civ. n. 5479 del 22 febbraio 2023).
Avv. Luca Benetti – avvbenetti@casaeassociati.it